Itinerari insoliti: c’era una volta Tandalò

Escursioni Experience Oschiri Tandalò

Gallura abbandonata - escursione a Tandalò

C’era una volta Tandalò. Non è da ieri che Tandalò non c’è più, ma da oltre cinquant’anni. O meglio, Tandalò c’è ancora, nelle sue mura, nelle sue stradine, nei suoi incredibili scorci, ma non c’è più vita a Tandalò. Oggi è un silenzio quieto a fare da padrone di casa a Tandalò. Oppure il suono del vento che muove le foglie e le persiane delle vecchie case abbandonate. 

Gli ultimi abitanti hanno lasciato il villaggio con le masserizie caricate su un asino percorrendo una scabrosa mulattiera fra le accidentate montagne della Gallura, in Sardegna. Tandalò fu, fino alla metà del secolo scorso, un villaggio di pastori e di carbonai. Non semplici dimore temporanee, bensì un vero piccolo paese con case di pietra, una chiesa e una scuola. L’isolamento gli fu fatale. Per raggiungerlo occorrevano ore di cammino e nessuno pensò mai di costruire una strada per arrivarci. Si dice che un tempo gli abitanti dei paesi vicini, Buddusò e Oschiri, da sempre più fortunati in quanto a strade e servizi, bollavano i discendenti dei tandaloini originari come persone rozze, ignoranti, insomma dei pastori illetterali. Corsi e ricorsi.

A Tandalò si campava con uova, pane e farro, recita una poesia popolare. Si guardava passare le stagioni ignorando il tempo, le autorità e le dominazioni. Ancora oggi, come un tempo, questo antico borgo abbandonato lo si raggiunge solo a piedi. E camminando, nel quieto silenzio della natura sovrana, forse si possono sentire le grida dei bimbi, i richiami delle mamme, le voci degli uomini che vivevano qui, lontano da tutto, al centro di tutto… 

L’accesso migliore è forse quello di Oschiri, magari più disagevole di quello da Buddusò – cui il villaggio appartiene – ma più adatto per una camminata. Si raggiunge la Foresta demaniale Su Filigosu, un paradiso in terra che in parte è mantenuta a sughereta, in parte è macchia mediterranea. In auto si raggiunge la Caserma forestale e si procede ancora, lungo uno sterrato per circa 8 km, prima di lasciare l’auto al confine dell’area protetta. Dopodichè ci si organizza con calzature e abbigliamento secondo la stagione e si prosegue zaino in spalla. La direzione è una, non ci sono possibilità di errore, e poi il villaggio si scorge subito, là in basso, vicino al torrente, con la chiesetta e due monumentali querce, mentre più in alto, sulla groppa di una collina, le case, disposte qua e là come fossero semenza. La chiesa è una modesta costruzione in pietra con il tetto a due falde e un piccolo campaniletto a vela. È intitolata a San Giuseppe ed è officiata due volte l’anno: il giorno del santo e il giorno della festa del villaggio.

In questa occasione i profughi di Tandalò tornano alle loro origini, banchettano allegramente sui tavoloni in marmo sotto le querce che li videro nascere, e poi si sparpagliano su per la collina a mietere ricordi. 

Le casette sono basse, rettangolini di calda pietra granitica, col solo piano terra e un paio di finestre al massimo. Fra le travi sfondate dei tetti, dentro le stanze invase dai rovi, si scorgono resti di vita abbandonata, con la testata in ferro di un letto, una sedia, la gamba di un tavolo, qualche oggetto a terra.

Ad un angolo c’è sempre la nicchia del camino, annerita dal fumo. Dinanzi alla casa si allarga una specie di cortiletto, cinto da un muretto in pietra. Buttata per terra c’è una brocca per il latte e ciuffi di lana pecorina dappertutto. La casa più in alto è la scuola, vicina alla croce in ferro che svetta sulla punta della collina. Non ha più scolari nè maestra, ma ci sono le banchette in legno e un pezzetto di lavagna dove qualcuno, forse tra mille ricordi e mille pensieri, con un gessetto bianco e la mano insicura, ha voluto lasciare il suo segno, il suo saluto: «Ciao, Tandalò».

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